Covid19: Rosalba D’Onghia un angelo di Cisternino in corsia
-di Gloria Erriquez-
Rosalba D’Onghia, di Cisternino, infermiera del reparto di Neurologia del San Raffaele di Milano è stata in prima linea contro il Covid19
Rosalba D’Onghia, nostra concittadina, si è laureata in Infermieristica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano nel novembre 2015. Ha iniziato a lavorare a gennaio 2016 presso l’ospedale San Raffaele nel reparto di Neurologia.
Ha conseguito inoltre un master sulla presa in carico di pazienti con grave disabilità presso l’Università degli studi di Milano in collaborazione con il centro clinico NeMo dell’ospedale Niguarda di Milano nell’anno 2018.
A fine marzo è iniziata per Rosalba D’Onghia (di Cisternino) l’avventura nel reparto Medicina Covid19 dello stesso Ospedale che si è conclusa il primo giugno scorso.
Sono stati mesi pesanti, difficili, sia per chi è rimasto chiuso in casa sia per chi si è dovuto comunque recare a lavoro, e ancor di più per tutti coloro che hanno dovuto trascorrerli negli ospedali, come il personale sanitario e i malati. Una vera e propria guerra, combattuta con sacrificio e abnegazione, senza risparmiarsi, pagata anche con la vita.
Attraverso i media abbiamo visto e ascoltato di tutto: il solo ricordo ci porta a rivivere un incubo tanto opprimente da apparire irreale, se tutto non fosse stato tragicamente vero.
Ne è prova, tra le tante, anche il resoconto dell’esperienza che Rosalba, con piacere e disponibilità, ci ha voluto far pervenire
«Nessuno aveva minimamente compreso la gravità della situazione e di come di lì a poco la nostra quotidianità sarebbe cambiata. È impresso nella mia mente: era sabato 22 febbraio 2020 quando nel reparto di Neurologia, ormai una seconda casa per me dopo quattro anni di lavoro, inizia a concretizzarsi la realtà COVID-19.
Per la prima volta io e i miei colleghi iniziamo a indossare una mascherina per l’intera durata del turno, districandoci tra le solite incombenze lavorative e i primi tentativi di educare pazienti e parenti circa il corretto uso delle mascherine e limitare l’afflusso degli utenti al reparto.
Trascorrono da quel momento i giorni e l’ospedale si prepara a fronteggiare l’ondata del virus con ogni tipo di risorsa. Vengono accorpati vari reparti in base alle aree di competenza per poter reperire personale da dedicare esclusivamente ai nuovi reparti COVID allestiti nel giro di poche settimane.
Iniziano a diffondersi voci circa il possibile reclutamento di personale anche nel mio reparto. La prima collega convocata, in virtù del master in area critica conseguito poco tempo prima, viene assegnata alla tanto temuta terapia intensiva. Ricordo che, al termine del suo primo turno, dopo dodici ore in quella nuova realtà lavorativa, passò in reparto a salutarci frettolosamente.
Noi eravamo ansiosi di ascoltare il suo racconto. Lei non riuscì a dire molto, con voce strozzata pronunciò solo “È tutto vero!” scuotendo la testa, esprimendo così incredulità e sconforto. In quell’istante i suoi occhi si riempirono di lacrime ed io rimasi muta, le sue lacrime e le mie lacrime. Ancora un poco e sarebbe toccato a me.
25 marzo 2020: inizia la mia avventura nel reparto di Medicina COVID.
Vengo appunto convocata anche io insieme ad altri sei colleghi dell’unità operativa di Neurologia. Contavo le ore e i minuti che mi separavano dall’ingresso in quel nuovo mondo, cercando in tutti i modi di gestire il turbinio di emozioni che mi assaliva.
Il timore di non essere all’altezza della situazione primeggiava su tutte le paure, anche su quella di potersi contagiare. Iniziai con il turno di notte: all’ingresso del reparto c’era un enorme cartello bianco su cui vi è riportato a caratteri rossi la scritta “Area COVID, vietato l’ingresso alle persone non autorizzate”.
Entrai con passo incerto e sguardo perso. Un collega decifrò subito il mio smarrimento e mi venne incontro indicandomi un’area filtro presso la quale avrei trovato tutti i dispositivi di protezione da indossare. Il carico di lavoro non permise di soffermarsi eccessivamente sul proprio stato d’animo, non era tempo di lasciarsi bloccare da paure o incertezze, ma occorreva essere operativi.
E così passò quel primo turno. Ciò che mi colpì moltissimo era il silenzio assordante interrotto solo dall’erogatore a muro dell’ossigeno ad alti flussi. Il suono riprodotto è simile all’acqua che bolle allegramente in pentola. L’ospedale non è genericamente un luogo silenzioso, i rumori delle attività lavorative si mischiano alle voci degli operatori, al trillo del campanello o agli schiamazzi provenienti dalle tv accese.
Quel reparto invece era surreale, la situazione era surreale.
Scoprii successivamente la difficoltà di lavorare con persone completamente estranee, colleghi mai visti prima di quella esperienza. Era difficile banalmente riconoscersi tra di noi a causa della tuta bianca che ci rendeva tutti uguali. Come noi, anche i pazienti sperimentavano lo stesso disagio: affrontare la malattia da soli, senza poter contare sulla vicinanza fisica di qualche familiare, circondati da persone completamente estranee.
Un pomeriggio un paziente esordì dicendo: “Se dovessi incontrarvi fuori da questo reparto non saprei riconoscervi”. Questa frase mi lasciò interdetta poiché mi resi conto che per loro noi tutti eravamo uguali.
I nostri segni distintivi erano gli occhi, unica parte visibile del corpo, e la voce. I nostri pazienti avrebbero ricordato di noi solo ciò che facevamo o dicevamo e questa consapevolezza doveva responsabilizzarci ulteriormente rispetto al delicato compito assegnatoci.
Non avrebbero ricordato il nostro volto, ma ciò che di buono saremmo stati in grado di trasmettere loro con gli strumenti a nostra disposizione. Chi eravamo, persino le nostre identità, non erano così importanti.
Ogni turno si dimostrava essere impegnativo, sia fisicamente che psicologicamente, ma la fatica non veniva percepita mai fino in fondo. L’aiuto reciproco, la parola di sostegno, la battuta detta per alleggerire la situazione, il confronto onesto e alla pari su questione lavorative erano elementi essenziali delle nostre giornate.
È impossibile descrivere il meraviglioso lavoro di squadra di quei mesi. Ho sperimentato in prima persona la dedizione di tutti i miei colleghi, medici, infermieri, fisioterapisti, oss e il loro spendersi per gli altri sempre con altissima professionalità.
Ricordo con ammirazione in particolar modo un oss proveniente dalla sala operatoria.
Covid19 Rosalba D’Onghia Cisternino
Avendo ridotto gli interventi chirurgici in elezione a causa del Coronavirus, egli metteva a disposizione le sue ore libere, in modo del tutto gratuito e disinteressato, per permettere ai pazienti privi di un qualsiasi apparecchio tecnologico di comunicare con i propri familiari attraverso videochiamate.
L’ho osservato svariate volte reggere quel tablet stando immobile per decine e decine di minuti. Ascoltava le consuete e comprensibili domande di apprensione da parte dei parenti e le varie manifestazioni di affetto senza mai far percepire da parte sua noia, seccatura o stanchezza.
01/06/2020: si chiude la parentesi nel reparto di Medicina COVID e torno a casa in Neurologia, forse alla normalità. Cosa porto con me di questa esperienza? Le storie di vita vera dei miei pazienti, la parte più bella e arricchente del mio lavoro. Ecco un piccolo assaggio…
Ernesto manifesta preoccupazione rispetto al suo stato di salute e ti chiede se per Natale potrà tornare a casa dalla sua famiglia. Giuseppe si commuove nell’informarti che quando tornerà dalla sua famiglia ci saranno tutti i bambini del suo piccolo paese ad accoglierlo al suo rientro. La felicità e lo stupore negli occhi di Mario per la sorpresa dei colleghi a mezzanotte nel giorno del suo compleanno.
Angela è una nonnina ultranovantenne che non si lascia scoraggiare dalle difficoltà che la polmonite le provoca, ma mostra indescrivibili capacità di resilienza e una mattina esclama: “Sono qui e mi devo curare”.
E sì, si riprende e viene dimessa.
Io non ero presente, ma i colleghi mi hanno raccontato che il giorno della dimissione, dal fondo del reparto e in direzione del figlio che la aspettava un passo fuori da quell’incubo, urlava vittoriosa “Carlo, ce l’ho fatta!”.
Sono loro i veri eroi di questa vicenda: hanno saputo fronteggiare con tutte le risorse a loro disposizione le varie prove di questa malattia. Voglio ricordare chi purtroppo non ce l’ha fatta, pochi fortunatamente, ma nessuno di loro verrà cancellato dalla mia mente».
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